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20 marzo 2017

L'intervista al Prof. Arch. Raffaello Cecchi, di Cecchi&Lima Architetti Associati

Modulo: In un articolo di Fulvio Irace questo progetto è stato definito come “il piccolo miracolo di una trasformazione che ha restituito ai cittadini un pezzo di città rimasto troppo a lungo congelato nei resti delle distruzioni di guerra e nell’incuria di un’affrettata ricostruzione”. Si riconosce in questa definizione? 
Arch. Cecchi: La definizione di Fulvio Irace ha siglato il vero senso di questa operazione. Questo progetto, più che costruire degli edifici in pieno centro storico a Milano, voleva donare uno spazio pubblico alla città, fruibile da tutti. Questo spazio, che possiamo chiamare piazza, o cortile pubblico, è stato il fulcro che ci ha guidati fin dal primo momento. Lo spazio pubblico urbano è stato il principio di questa operazione architettonica, che prevedeva la costruzione di edifici per abitazioni in sostituzione di un vecchio progetto della Fondazione Feltrinelli, sempre declinati insieme allo spazio pubblico circostante. Partendo da questo è andato delineandosi uno spazio aperto con due quinte costituite dagli edifici progettati: prima è venuto il disegno del vuoto, poi del costruito. 

Modulo: Questo vuoto di cui parla era in realtà caratterizzato da diverse presenze, come vi siete confrontati con queste ultime? 
Arch. Cecchi: Il disegno del vuoto supponeva accessibilità come percorsi, più percorsi che convogliassero in questo spazio aperto dominato dalla forte presenza della torre Gorani, una torre di impianto forse medievale, rimaneggiata in varie epoche fino all’ultimo intervento dei primi del Novecento, in cui la torre è stata dotata della copertura finale, prima inesistente. Questo fulcro e intreccio di percorsi, che potevano essere di tipo archeologico, turistico, abitudinario, data la vicinanza di palazzi per uffici, vuole rappresentare uno spazio di sosta, di quiete, in una città trafficata in cui gli spazi di sosta scarseggiano. Questo intento si è configurato in uno spazio aperto, disegnato con lastre di pietra su un supporto costituito dai resti della città romana che lo scavo finanziato da Feltrinelli ha portato alla luce. 

Modulo: Come avete cucito vecchio e nuovo paesaggio urbano? 
Arch. Cecchi: Lo spazio sotterraneo è stato portato alla luce e reso visibile attraverso degli espedienti progettuali, come due grandi occhi vetrati posti sul pavimento filo superiore della “piazza”. Anche il trattamento del pavimento di fianco alla torre, basato su un lavoro di recupero archeologico, ha permesso di identificare la piazza attraverso l’espediente formale di una lastratura alla Pikionis, un omaggio all’architetto con riferimento ai percorsi da lui progettati ad Atene. Nello stesso tempo è stato progettato un giardino, composto da elementi bassi alternati ad arbusti alti, curato dal paesaggista Antonio Perazzi. 

Modulo: Che ruolo hanno gli edifici per residenze in questo progetto? 
Arch. Cecchi: I due edifici che delimitano la piazza hanno una funzione di contenimento, quasi la pretesa di racchiudere questa atmosfera pubblica, non esibendo alcun carattere forzoso. Con forzoso intendo che non urli, non gridi, non aderisca ad un discorso di tipo morfologico della città storica. Gli edifici rappresentano due quinte costituite dalle facciate degli stessi, dal carattere contemporaneo, con partiture irregolari e con accenni a rapporti non tradizionali tra bucature e facciata. Abbiamo scelto delle particolari persiane per le finestre, da noi ricercate per fasce verticali e non orizzontali; abbiamo scelto delle aperture contenute, preferendo delle logge a dei balconi. Alcune caratteristiche distintive dei due edifici derivano dalla composizione della copertura aderente alle forme degli edifici circostanti. Il tetto di via Gorani è composto da una doppia falda, in adesione al vicino edificio. Una prerogativa voluta da noi e spiegata poi alla sovrintendenza. Uno sfizio che ci siamo tolti è quella specie di “flap”, una citazione voluta sulla facciata, poiché arrivando da San Maurilio il progetto era praticamente invisibile. Un’uscita che vuole essere testimone di un nuovo intervento rispettoso degli elementi del passato presenti in quel contesto, una citazione voluta su uno spazio a doppia altezza per rendere omaggio alla tipologia della torre, visibile da tutti i lati. Quel triangolo a sporgere è un ricordo del tema torre – palazzo, con un’apertura alla sommità che ricorda le batterie da dove si sparava con gli archibugi. 

Modulo: Ci troviamo in pieno centro storico a Milano, nella Milano romana, con preesistenze importanti. Quali difficoltà avete incontrato e quale rapporto avete avuto con gli scavi archeologici? 
Arch. Cecchi: Il rapporto con gli scavi archeologici è stato interessante e nello stesso tempo stimolante, a partire dalla difficoltà di costruire una struttura adeguata all’intervento e che non toccasse i reperti sottostanti, tra cui mosaici e absidi. Il progetto strutturale, dell’Ingegnere Zaretti e condiviso dall’archeologia, ha previsto la creazione di una soletta portante dello spessore di 60 cm, appoggiata sui muri romani i cui vuoti sono stati riempiti con materiale solido misto ad inerti. Al piano interrato si possono ammirare i mosaici portati alla luce insieme a due o tre interventi sul sottosuolo segnalati dalla sovrintendenza che hanno previsto l’utilizzo di teche a livello dei garage. Abbiamo fatto una selezione dei pezzi archeologici da mettere in vista, il resto è rimasto intatto sotto la soletta portante, quindi scopribile in fasi successive. 

Modulo: Questo progetto ha vissuto sviluppi successivi, come siete arrivati all’ultima tappa di quest’opera trentennale? 
Arch. Cecchi: Il lungo tragitto di questi 30 anni, dal 1984, è passato per varie successioni: 5 assessori, 5 sovrintendenti per i beni ambientali, 5 paesaggisti… abbiamo zigzagato in questa difficile storia di desideri repressi e manifesti di tutti i personaggi che ne hanno fatto parte. Abbiamo cercato di muoverci in maniera molto contenuta, e pensiamo che questo discorso possa essere ampliato a tutti per cercare di tirare le fila in questi ultimi 5 anni di costruzione. Ci teniamo molto al fatto che sia stato un progetto pensato non sulla carta, non come immagini dalla forzosa aderenza al mondo del cinema e della grafica come oggi vengono editate (nei 3D, nei render, ecc.), ma un edificio misurato sulla consistenza reale delle cose, dei manufatti esistenti, degli edifici, calibrato sulle aperture, sull’accostamento di vecchio e nuovo. 

Modulo: Entrando più in dettaglio nel progetto, quali accorgimenti avete utilizzato, quali sono le peculiarità degli edifici, dal punto di vista strutturale e materico? 
Arch. Cecchi: Per quanto riguarda le scelte progettuali abbiamo collaborato con aziende italiane per la realizzazione del progetto, sia per le finiture che per gli interni. Per esempio la copertura è stata studiata appositamente in collaborazione con Vmzinc, abbiamo scelto Rimadesio e Lualdi per i serramenti interni e Palladio per quelli esterni, l’isolamento acustico è stato effettuato da Isolmant… e molte altre. Anche all’interno abbiamo scelto delle bellissime lampade di un designer giapponese di Fontanaarte per l’atrio, dove è posizionato il fiore all’occhiello di questo progetto, un pannello in ottone retroilluminato che ripropone il disegno del famoso mosaico ritrovato. Un’altra scelta particolare è stata quella dei materiali per la facciata, realizzata da Sto Italia con Bazea. Qualsiasi materiale ha una sua pezzatura, una sua finitura. Avevamo la necessità di ottenere una continuità con il contesto, quindi con le case ottocentesche e novecentesche presenti, attraverso un elemento unitario, e questo elemento per noi è stato rappresentato dall’intonaco: un intonaco autopulente disposto sopra una parete ventilata. 

Modulo: Lei parlava prima di un carattere non forzoso dell’intervento, di un’architettura “appropriata” legata al contesto: quando si definisce tale? 
Arch. Cecchi: Con appropriata si definisce un’architettura propria di quel sito, che sembri lì da sempre, propria del luogo, che non produca un forte senso di diversità. La diversità è necessaria, fare delle architetture diverse significa non fare degli edifici in stile ma contemporanei. Un’architettura è appropriata quando, pur essendo diversa, e quindi contemporanea, racconta il sito e ne permette l’uso, essendo misurata su quello. L’architettura è sociale, non è arte fine a se stessa.

Autore: Clara Taverna
Photo credits: Marco Introini
Pubblicato su Modulo 405/2017
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