Di fronte ad una celebrità la platea è letteralmente in tripudio: il pubblico applaude, bisbiglia parole di approvazione e si accalca per vedere, come può, una parte del volto, la figura, per sentire qualche frase pronunciata dal personaggio che gli è davanti. Infine corre, sgomita, scatta fotografie di continuo e cerca di filmare con qualsiasi mezzo tecnologico disponibile l’evento, di imprimerlo in qualcosa di reale che possa mostrare ad amici, conoscenti, orgoglioso di aver assistito a quel quasi miracolo di cui vuole renderli partecipi. E la calata di
Zaha Hadid sul Politecnico di Milano, ieri – 12 aprile 2011, deve essere sembrata proprio una grazia agli studenti che si accalcavano a migliaia intorno allo Spazio Patio di via Ampere: sugli sgabelli, chi riusciva a portarseli dietro, sulle scale, aggrappati a pilastri, affacciati alle balaustre di cemento dell’ingresso del campus, alzati in piedi su aiuole, gradini. L’ambiente era saturo di aspettativa per l’architetto anglo-irachena che si sarebbe seduta in cattedra aspettando di soddisfare le domande curiose della folla. [youtube]68yRADPY5kA[/youtube] E
Zaha Hadid, al tavolo, circondata da giornalisti, professori, dal preside di facoltà, ha saputo essere star, progettista, critica, docente. Maestra nel ripercorrere le dinamiche del suo metodo educativo nelle due Università in cui insegna -all’Architectural Association di Londra, dove lei stessa si è formata, e all’University of Applied Arts di Vienna – e nel suggerire quello slogan da cui è partita la sua attività e che ancora oggi la supporta nella professione: “Non credo che per andare avanti bisogna guardarsi indietro”. Con questo motto l’archistar ha cercato di indicare una globalità di attitudini e di metodi di cui si è servita: dalla crisi del modernismo degli anni ’70, periodo in cui ha guadagnato una notevole libertà di azione in termini tipologici e formali, alla considerazione della nuova struttura urbana all’interno della città contemporanea. Guardarsi avanti è considerare l’attuale, è anticipare il futuro e le esigenze della società, è comprendere la necessità di declinare con efficacia di mezzi il dominio pubblico, è assecondare la permeabilità dei nuovi edifici centrali di una metropoli. La rigida geometria sembra aver perduto l’importanza che deteneva sino a pochi decenni fa: il suo decadimento è direttamente conseguente alla rottura dell’isolato chiuso e alla maggiore porosità dell'abitare. I caratteri della città contemporanea, dice al microfono
Zaha Hadid, sono assorbiti nelle sue opere, che esplorano ambiti inediti grazie all’utilizzo di una nuova geometria e tecnologia: i progetti sono fortemente contestuali e, pur denunciando una cifra stilistica certamente riconoscibile, assumono forme differenti con la medesima unità di principi. Così il
Maxxi registra e risolve le criticità urbane di quel brano della periferia romana, il
Glasgow Transport Museum connette l’elemento del corso d’acqua al costruito, il progetto Citylife non fa altro che concretizzare le tendenze in atto nello sviluppo urbanistico, indicando come Milano si protenda naturalmente verso un certo grado di densità e un raddoppiamento del tradizionale centro storico. Alle consuete critiche di autoreferenzialità l’architetto risponde con grande disinvoltura ribaltando il punto di vista e chiarendo regole, metodi e obiettivi di un lavoro tutt’altro che esclusivamente iconico. Così, di fronte allo stupore generale seguito alla conferenza,
Zaha Hadid si alza dalla sedia, firma autografi, si allontana salutando con la mano il pubblico ipnotizzato. Come una vera diva.