Redesco (Research-Design- Consulting) è una società di engineering fortemente orientata alla ricerca, alla creatività e all’esperienza sul campo. Specializzata in Ingegneria Strutturale e fondata nel 1975, la sua missione è progettare strutture fuori dall’ordinario. Redesco Progetti può vantare la profonda conoscenza di molteplici attività, materiali e tipologie edilizie: dalle torri alle infrastrutture, dai ponti alle passerelle pedonali e strutture speciali, dal calcestruzzo armato a quello precompresso o post-teso, dall’acciaio a materiali strutturali innovativi. In questa Intervista Mauro Eugenio Giuliani ci racconta la storia di Redesco e le prossime sfide per il futuro della società.
Modulo: Redesco entra nel panorama degli studi di ingegneria nel 1975, anno di nascite illustri, come quella di Modulo. Ci vuole raccontare le origini? Redesco: Redesco Progetti nasce nella realtà italiana del dopoguerra. Giancarlo Giuliani si laurea al Politecnico di Milano nel 1958 come ingegnere edile. Un mese dopo appende una targhetta con l’incisione Ing. Giuliani sulla porta dell’appartamento in cui vive. Da quel momento inizia a darsi un gran daffare, calcolando di giorno e disegnando di notte. Nel 1975 prende un’iniziativa visionaria per l’epoca: fonda la società Redesco insieme a un architetto, a un ingegnere meccanico e a un urbanista. L’intenzione è quella di creare una realtà multidisciplinare, ma l’esperimento si rivela fallimentare, soccombendo a un destino inevitabile in quel momento storico di individualismo sfrenato: la società si scioglie e viene rilevata da mio padre. Negli anni Novanta lo studio è incaricato della progettazione strutturale dei Padiglioni Fiera Milano/Portello: il calcolo delle carpenterie è fatto in Cad, una metodologia considerata allora innovativa, non possiamo parlare ancora di Autocad ma di SMC Cad, software prodotto da un’azienda italiana. Quattro disegnatori e due ingegneri lavorano a tempo pieno per un anno per stampare un plotter Benson 1400. Questo è un aneddoto che vuole raccontare che la sfida fa parte del DNA di Redesco.
Modulo: Che cosa succede quando entra in scena il figlio di Giancarlo Giuliani?
Redesco: Mi sono laureato nel 1990 e sono andato a vivere in Spagna, dove ho lavorato per tanti anni per l’ingegnere Julio Martinez Calzon, grande strutturista e progettista di ponti. Sono rientrato nel 1998, durante un periodo di forte crisi nel mondo delle costruzioni, in cui si andava avanti a piccoli numeri.
Si possono delineare due momenti ben distinti nella storia dell’edilizia: uno, quello compreso tra gli anni Settanta e gli anni Novanta, era caratterizzato da un grande risalto dell’ingegneria, pochi progetti ma di considerevole rilevanza; a questo ne è seguito un altro, che dura tuttora e che ha osservato gli ingegneri cadere in secondo piano e aumentare i numeri riguardanti i progetti gli addetti e i clienti. Oggi non è più sufficiente, come prima, avere uno o due progetti all’anno: bisogna accumularne almeno dieci.
Come mio padre, mi sono sempre buttato in prima persona per dare un’impronta molto forte alla ricerca. Il nostro scopo è sempre stato quello di attirare i talenti, cercando di convincerli che qui si può crescere, si possono inventare strutture interessanti e sperimentare metodi innovativi.
Modulo: Quindi Lei sostiene che l’ingegneria oggi è passata in secondo piano. Chi le ha rubato il primo posto?
Redesco: La spettacolarizzazione e la personalizzazione; in una parola, l’immagine, la quale si declina: o nella forma dell’edificio, che deve essere audace come quelli che s vedono a Dubai, o nella personalità del promotore o dell’architetto. Oggi l’edificio si vende perché si fregia di una firma prestigiosa, oppure perché ha un aspetto particolarmente accattivante; tutto il lavoro che viene fatto dietro le quinte è sparito dal panorama. Non ne faccio una questione di invidia professionale, ma credo che questo abbia comportato negli anni un impoverimento qualitativo della progettazione.
Modulo: Come è cambiato il modo di progettare da quando Lei si è laureato? Oggi qual è, secondo Lei, il significato del termine “progetto”?
Redesco: La principale differenza consiste nell’aumento del numero di persone che siedono attorno a un tavolo e prendono decisioni. Per come la vedo io questo ha comportato un’impennata del livello di entropia. Oggi la parte più preponderante dell’ingegneria è quella dedicata all’impiantistica, poiché è quest’ultima che determina il costo di vita di un fabbricato.
Al proprietario dell’immobile che sta investendo non interessa nulla sulla funzionalità della struttura, un eventuale risparmio su di essa occupa l’ultima riga in fondo al foglio del preventivo e forse importa solo all’impresa che ci mette i soldi.
Sicuramente sono cambiati i metodi e gli strumenti della progettazione, i quali si stanno spostando verso una virtualizzazione sempre più completa, si tende a modellare gli edifici prima ancora di averli concepiti in ogni loro parte. Dalla progettazione 3D si passa poi al BIM, dove a ogni singolo elemento del modello si aggiungono delle informazioni, che possono essere semplicemente relative al materiale, oppure al programma di manutenzione, al costo e così via. Si sta spostando l’identificazione dei problemi principale del progetto verso una modellazione in continuo che, a forza di confrontare modelli in successive interazioni, elimina le diversità, creando in ultimo un progetto integrato. Questo nuovo processo mi lascia perplesso perché ha deresponsabilizzato i progettisti rispetto a quindici anni fa. Allora una riga tirata con la matita dimostrava che qualcuno aveva preso una decisione. In questa tendenza alla virtualizzazione spinta, ogni elemento richiede una precisione estrema e questo ha sfocato le differenze tra le priorità. Se il modello sostituisce il progetto, allora si perde molto tempo a cincischiare con il modello. Non ci stiamo mettendo meno tempo a progettare e i progetti che facciamo oggi non sono meglio dei progetti di quindici anni fa. Soprattutto in architettura, il tempo che si impiega sul progetto si è spostato su una fascia di addetti meno qualificata, più giovane e meno pagata.
Io credo che dal punto di vista dei valori più profondi non sia cambiato molto: ci vuole un architetto che riesca a cogliere una visione ampia di quello che sta facendo e che sappia includere i diversi apporti dati dagli specialisti.
Il vero cambiamento non è nelle radici profonde della progettazione- quest’ultima è un’operazione umana di sintesi che deve essere gestita da professionisti che conoscono le esigenze del cliente, il significato del lavoro che fanno e come integrare le varie discipline.
Per concludere, credo sia necessario ridefinire le priorità progettuali e ridare le responsabilità alle poche persone chiamate a coordinare il progetto.
Modulo: Avviamoci alla conclusione: quali sono le vostre opere che Lei considera maggiormente iconiche?
Redesco: Uno dei progetti del passato che amo di più, anche se non è di grande rilevanza dimensionale, è la Torre di controllo dell’aeroporto di Barcellona. Anche quest’ultima è stata il prodotto di una concentrazione di invenzioni che mi hanno visto come progettista in ogni singolo dettaglio, anche perché allora le condizioni mi davano più tempo e concentrazione per dedicarmi minuziosamente all’attività progettuale.
Si trattava di un concorso vinto con un architetto spagnolo di origine americana, con cui ho lavorato anche per l’aeroporto di Alicante. L’idea era quella di fare una parabola iperbolica con elementi in calcestruzzo bianco prefabbricati ad hoc e già in torsione. Tutto l’edificio era auto costruibile: man mano che si montavano i suoi pezzi, cresceva senza l’aiuto dei ponteggi, né di opere provvisorie. La scala interna, che essendo vicina al mare è in alluminio, è un sistema di estrusi con giunti a secco ricavati da pochissime tipologie di profili disegnati da noi. La scala, mentre si costruiva, faceva da dima al flusso della struttura, la quale veniva appunto costruita avendo un riscontro nello spazio dato dalla scala prefabbricata. Completata la parte in cemento armato, gli si montava la parte in acciaio sopra. Cresceva insomma un grande meccano. L’edificio di base è a sua volta in calcestruzzo bianco prefabbricato: qui ogni elemento è stato disegnato appositamente e tutti i nodi sono stati a scomparsa, in maniera tale da rendere la struttura già facciata.
La Sede BNL a Roma è un progetto più attuale dal punto di vista della soluzione, in quanto edificio in acciaio, porta a compimento in grande scala un’invenzione che avevamo già fatto nell’edificio di Zegna di via Tortona a Milano. È stato progettato un solaio particolarmente innovativo: snello, con delle masse sismiche minime, ma abbastanza capace da permettere l’integrazione degli impianti. Questo è un edificio a cui tengo molto perché dietro all’apparente semplicità dei volumi e alla ripetitività, in realtà nasconde una certa complessità sia per il tema della sismica sia per quello dei solai.
Diversi anni fa abbiamo progettato una variante per i viadotti della Sardegna, che ci è valsa la menzione alla medaglia d’oro di Architettura Italiana. Rispetto al solito ponte a travi in cemento armato abbiamo proposto e costruito, per un totale di 2 Km di impalcati, una soluzione nella quale abbiamo usato una struttura mista in acciaio e calcestruzzo che abbiamo anche brevettato. Si trattava di una trave centrale e di un sistema reticolare laterale che facevano collaborare una soletta gettata su elementi prefabbricati. L’obiettivo era quello di avere un’opera che pesava 92 kg/mq contro una media di 160 kg/mq e che avesse un aspetto non impattante e all’altezza del contesto paesaggistico. Il viadotto ha delle luci che vanno dai 26 ai 40 metri ed è stato totalmente innovativo da essere copiato in diversi luoghi del mondo.
Oggi non si progetta più così perché si prediligono soluzioni più materiche, con meno sofisticazione nella concezione e nell’esecuzione. Quest’opera mi tocca anche dal punto di vista sentimentale: è uno dei primi progetti di cui mi sono occupato appena tornato in Italia, un lavoro compiuto con mio papà a quattro mani.
L’intervista completa pubblicata su Modulo 416, novembre/dicembre 2018