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12 dicembre 2016

Puntare sull’ingegneria: organizzazione e capacità di fare sistema. Il pensiero di Umberto Sgambati.

“La cultura italiana del progetto ha nelle sue corde abilità creativa e, allo stesso tempo, capacità di risoluzione dei problemi, uniche e straordinarie, ma è l’organizzazione la variabile che, se si vuole competere a certi livelli, oggi è in grado di fare la differenza” – afferma l’amministratore delegato di Proger.
Modulo: Cosa significa essere un’impresa internazionale? E come è possibile valorizzare “l’italianità” delle imprese? 
Umberto Sgambati: Una società di ingegneria rappresenta il “software” del progetto, inteso come pensiero/base/testa di un’opera, indispensabile e vincolante per la realizzazione e il funzionamento dell’”hardware”. In Francia, Regno Unito, Germania, Stati Uniti e in generale negli altri Paesi esistono società di ingegneria di cultura politecnica decisamente più grandi e organizzate che da noi. In questi Paesi la distinzione, per esempio, tra architettura e ingegneria non è netta. In Italia, invece, i due mondi sono spesso abbastanza lontano tra loro: difficilmente architettura e ingegneria vengono viste riunite in un possibile unico soggetto, anche se in realtà hanno bisogno l’una dell’altra. 
Da una parte credo che un grande Paese come il nostro dovrebbe puntare molto di più sull’ingegneria come apripista e traino per la propria industria e per la propria economia e, dall’altra, ritengo che le realtà che hanno le potenzialità per essere importanti sui mercati internazionali non debbano essere chiude in campi troppo particolari, di nicchia. 
Quello di cui abbiamo bisogno sono culture multidisciplinari che consentono di gestire progetti complessi con una logica di ampio respiro, tenendo chiaramente conto di conoscenze specialistiche e di sensibilità “artigianali” specializzate ma organizzate in una logica “industriale”. Parlo di management, procedure, tools operativi moderni, di un’organizzazione che sappia pianificare e integrare al meglio il contributo dei singoli. In Italia non esistono molte realtà di questo genere – che sono poi quelle che occupano le prime 250 posizioni nei ranking internazionali – ma abbiamo qualità e caratteristiche che, se aggiunte a strutture ben organizzate, ne costituirebbero il vero vantaggio competitivo. La cultura italiana del progetto ha nelle sue corde, infatti, abilità creativa e, allo stesso tempo, capacità di risoluzione dei problemi, uniche e straordinarie, ma è l’organizzazione la variabile che, se si vuole competere a certi livelli, oggi è in grado di fare la differenza. 
In Arabia Saudita, per esempio, se ci fossimo limitati al rispetto delle richieste contrattuali e non avessimo deciso di aggiungere elementi in grado di conferire maggiore qualità e peso specifico al nostro lavoro (non esplicitamente richiesti ma capaci di valorizzare la nostra professionalità), non avremmo sicuramente riscosso il successo che invece abbiamo ottenuto. 

Modulo: Quali possono essere le dinamiche utili a smarcare l’Italia dalla dimensione “provinciale” nella quale si trova realmente a “suo malgrado” relegata? 
Umberto Sgambati: Il project management ha di fatto esordito in Italia, nel settore dell’ingegneria civile, all’inizio degli anni Novanta, ma rimane ancora una materia approfondita meno di quanto dovrebbe nell’ambito della formazione specialistica universitaria. Oggi puntare sul project management è essenziale cos’ come è fondamentale investire sul “fare sistema” e nello sviluppo di una capacità organizzativa che sappia valorizzare al meglio il contributo dei singoli. 
Questo è quanto Proger si propone di fare in Arabia Saudita e negli oltre venti Paesi del mondo in cui opera, cercando di distinguersi per la capacità di integrare competenze diverse e “aggregando” esperti che nei vari settori di competenza creino valore aggiunto e contribuiscano a fare la differenza, mentre da soli non avrebbero la possibilità di confrontarsi con certi mercati. 
Proger conta oggi più di 1.500 professionisti ed è una struttura internazionale con una solida presenza in Medio Oriente (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iraq, Turchia), in Europa orientale (Romania, Bulgaria, Serbia), Russia, Asia centrale (Kazakistan e Turkmenistan) e Africa (Algeria, Congo, Mozambico). L’headquarter in Italia conta, tra le varie sedi, circa 300 addetti e gli ambiti di intervento sono quelli dell’Oil&Gas e dell’Ingegneria Civile (infrastrutture e edilizia). Posso assicurare che, rispetto alle più importanti società di engineering e management straniere, non si tratta di certo di dimensioni e caratteristiche eccezionali. 

Modulo: La “misura” europea coincide con quella internazionale? Medio Oriente e Asia sono situazioni per le quali è necessario riformulare le strategie (sia d’ingresso e d’insediamento delle società sia di sviluppo del lavoro)? 
Umberto Sgambati: La conoscenza delle dinamiche politiche e socioeconomiche dei Paesi in cui si va a operare è naturalmente fondamentale, soprattutto se ci si riferisce all’estero che “interessa” società come Proger: quello impegnato in un processo di sviluppo, che deve ancora sviluppare e realizzare molte delle sue infrastrutture. La partita si gioca, in questo caso, innanzitutto creando e consolidando relazioni profonde con il territorio (aprendo ad esempio branch office), perché l’estemporaneità non paga. Per una società di ingegneria generale come la nostra, insediarsi in un Paese, radicare la propria presenza e operare in ambiti diversi è importante per garantire un rapporto stabile, che sia anche proficuo dal punto di vista economico. È evidente che per un mercato diverso, quello europeo, le dinamiche strategiche sono invece del tutto differente: gli spazi da esplorare sono quelli delle specializzazioni e delle nicchie ad alto valore aggiunto. 

Modulo: Un tema caldo, quando si parla di internazionalizzazione delle società italiane, è quello delle Garanzie Bancarie Internazionali e, più in generale, delle tutele e dei sostegni governativi. 
Umberto Sgambati: Quello delle garanzie è un tema su cui a volte, nel nostro Pese, facciamo confusione o di cui ci lamentiamo fingendo di non vedere i problemi strutturali, scambiando causa con effetto. Le realtà italiane hanno mediamente dimensioni ridotte, sono fragili, non particolarmente strutturate dal punto di vista economico e le difficoltà di tipo finanziario finiscono con l’incidere sulle possibilità che hanno di muoversi sui mercati internazionali e di essere competitive: ma il problema è a monte, sta nelle dimensioni e nell’organizzazione delle società italiane. Quando si parla di ingegneria italiana generalmente si pensa a Nervi, Morandi, Musmeci o, andando indietro nella storia, al Rinascimento, finanche all’Antica Roma. Ma dobbiamo invece guardare all’attualità e oggi servono altri e nuovi requisiti perché rispetto alla “statura” delle società che si muovono sui mercati internazionali, noi italiani facciamo attualmente fatica a farci riconoscere.  
La via della nostra crescita deve perciò passare attraverso l’aggregazione di diversi soggetti che abbiano la capacità di “fare sistema”, integrandosi realmente e abbandonando ognuno il parossistico amore per la propria (presunta) autonomia e il vanto del particolarismo. Pratica alla quale, nonostante tutte le dichiarazioni, non siamo assolutamente avvezzi. 
Un’indicazione in questo senso il Governo l’aveva espressa già con la “Merloni-ter” (1994) che offriva la possibilità di realizzare consorzi stabili anche tra società di ingegneria oltre che di imprese di costruzione (l’articolo 12 recitava: “Si intendono per consorzi stabili quelli (…) formati da non meno di tre consorziati che, con decisione assunta dai rispettivi organi deliberativi, abbiano stabilito di operare in modo congiunto nel settore dei lavori pubblici, per un periodo di tempo non inferiore a cinque anni, istituendo a tal fine una comune struttura di impresa”). 
Nonostante negli appalti pubblici venisse premiata la capacità di fare networking, molti dei consorzi che sono nati hanno avuto vita breve o comunque sono rimaste organizzazioni virtuali: si continua a lavorare come sommatoria di piccole strutture che mirano a ottenere una maggiore forza commerciale, senza però intervenire in modo concreto dal punto di vista dell’integrazione strutturale e organizzativa. 

Modulo: Ha ancora senso parlare di proiezione verso i mercati stranieri quando si comincia a parlare di internazionalizzazione in senso biunivoco (investimenti esteri in Italia che presuppongono soggetti partecipanti internazionali come società di progettazione, general contractor, aziende di produzione e imprese italiane all’estero)? Per spiegarmi meglio, qual è a distanza, in termini di tempo e organizzazione strutturale, di pensiero di professionalità che ancora esiste tra “società italiane di progettazione” e “società italiane di progettazione in grado di operare in un contesto realmente globalizzato”? 
Umberto Sgambati: Il termine “internazionalizzazione”, ma soprattutto la circostanza che sia automaticamente inserito nei discorsi che si fanno ogni volta che si parla del futuro (e non fa eccezione il mondo dell’ingegneria), mi fanno a volte riflettere su quanto sia immaturo – tranne che in alcuni casi, naturalmente – l’approccio italiano al tema. Per tutti è una parola d’ordine e una necessità imprescindibile, un “must”, ormai uno slogan che si innesca in modo naturale; ma subito dopo seguono termini come “finanziamenti, garanzie, assistenza, supporto, aiuto da parte dello Stato”: credo che questo costituisca per noi un grande lite che evidenzia la “pigrizia” delle nostre aziende, troppo concentrate su sé stesse e poco attente a quello che accade fuori dal proprio giardino. 
Siamo già in un contesto “internazionale”, il “mercato globale” non dobbiamo scoprirlo noi e non ci sono scelte ancora da fare perché il mondo è andato avanti e le sue scelte le ha già fatte. Oggi le società italiane di progettazione, tranne rarissime eccezioni, non sono in grado di operare in un contesto realmente globalizzato e non perché siano inadeguate dal punto di vista tecnico e professionale, anzi, mancano invece le basi di organizzazione e dimensioni e risultano quindi assolutamente non competitive sui mercati internazionali. Se si considerano le difficoltà e i limiti attuali del marcato italiano (spazi ristretti, regole complesse, concorrenza agguerrita, prezzi inadeguati, qualità non premiata, ecc.) non ci vuole molto a comprendere gli umori e le paure del settore. Il salto di qualità, a mio avviso, è proprio nei termini “organizzazione e dimensioni”: naturalmente senza dimenticare la “qualità” che per le società italiane deve restare l’ingrediente fondamentale – e il vero vantaggio competitivo – per vincere. 
Prima, però, bisogna essere in grado di competere. Sono convinto che per prepararsi alle sfide internazionali non esista palestra migliore dell’Italia a patto però che cambino alcune regole e si favorisca la crescita di “soggetti” di cultura politecnica di nuova generazione. 


Pubblicato su Modulo 398
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