Il vantaggio competitivo dell’architetto italiano è quello di coordinare e mettere in gara competenze specifiche unite a una grande e unica capacità di regia.
Modulo: Italia/Mondo. Come interpreti il tema del Made in Italy? Ritieni che sia una leva competitiva favorevole? Giampiero Peia: Più che il Made in Italy, vorrei parlare di “italianità” del progetto, della capacità degli architetti italiani di essere trasversali, in grado di affrontare con competenza e compiutezza tipologie e scale dimensionali diverse. La celebre affermazione “Dal cucchiaio alla città” ha un portato di innovazione che si riafferma con connotazioni diverse, ma forza invariata nel tempo, un valore mutuato e confermato dalla storia della nostra architettura. È un elemento di competizione in controtendenza rispetto al modello anglosassone che spinge alla specializzazione (eccessiva!) e che imperversa sul mercato internazionale del progetto.
Modulo: Quello anglosassone viene assunto a modello anche da molte società italiane che individuano nella sua metabolizzazione, sia pure filtrata e “italianizzata”, un fattore di competizione importante nelle gare…
Giampiero Peia: Il modello anglosassone sta rivelando, sempre di più, i suoi punti deboli che si individuano soprattutto nella mancanza di originalità e flessibilità, nel clash che si crea nel dicotomizzare le componenti di un edificio, la struttura dell’involucro, l’architettura dell’edificio dall’interior, con disarmonie formali e, a volte, uno sproporzionato e inutile project management, un sovraccarico di costi per gli adeguamenti ad esempio delle componenti impiantistiche nella fase di implementazione del layout degli interni. Elemento, quest’ultimo, che viene rilevato dal cliente con notevole e comprensibile disappunto. E poi il know-how italiano è più ricco di quello dei competitor anglosassoni per radici storiche, formazione, cultura architettonica, artistica, ma anche tecnica.
Modulo: Come è possibile che un Committente sia consapevole di uno scenario che attiene ad argomenti e competenze squisitamente tecniche?
Giampiero Peia: Il tema dell’intervento sull’opera di recente e recentissima realizzazione per ridurre le disarmonie esistenti, quando ad esempio si proceda all’allestimento degli appartamenti o degli uffici per l’affitto o la vendita delle singole unità immobiliari, pesa talmente tanto sul portafoglio che l’asset manager della Real Estate proprietaria e committente non può non accorgersene. Oneri da affrontare, non previsti, a fronte di oneri appena affrontati.
La figura del project manager, ruolo chiave nello sviluppo del modello anglosassone, non possiede gli strumenti conoscitivi che gli consentirebbero di ridurre gli slittamenti tra le parti, perché ha una visione e una gestione parziale del progetto sia in termini fisici sia in termini temporali.
Modulo: Queste considerazioni derivano dalla tua esperienza diretta. Come ti organizzi…nel mondo?
Giampiero Peia: Abbiamo cominciato a lavorare nel 2003 cogliendo un’opportunità a Doha. Oggi Peia Associati ha un ricco portfolio clienti su Doha che si è rivelata anche un’eccellente hub logistico per la prossimità, in linea d’aria, ad altri territori in Medio Oriente dove abbiamo sviluppato lavori (Cina, Maldive, India e Sri Lanka). Qui abbiamo partner affidabili e a Doha abbiamo un branch office diretto da Marta Nasazzi. La sede è a Milano ed è da qui che sviluppiamo i progetti dal concept all’esecutivo e io ogni mese passo due settimane all’estero, quindi tanto tempo tra Skype e aeroporti.
Come considerazione generale, non è possibile operare all’estero con la filosofia del “mordi e fuggi”, vado, vedo, torno e ritorno: la presenza locale è un fattore determinante di successo, sia nei rapporti sia per il controllo della qualità dell’opera.
Modulo: Come si sta sviluppando, invece, la tua esperienza in Europa?
Giampiero Peia: In ambito europeo abbiamo lavorato in Grecia, in Svizzera, in Italia, naturalmente. E qui mi piace citare un’opera recente, il più grande centro culturale buddista realizzato in Europa, committenza giapponese, esisto della riqualificazione di una struttura agricola esistente e della costruzione di un nuovo edificio, un auditorium, destinato a essere centro civico durante la settimana che si riappropria della sua funzione originale di tempio nei weekend. Un progetto internazionale al servizio della popolazione locale. Ma anche il padiglione Coca Cola a Expo, che nonostante i pregiudizi ha vinto molti premi di sostenibilità e sarà ricostruito a Milano a fini pubblici e sportivi. Poi in Africa, in Libia (concorsi internazionali, qualche anno fa), in Libano, in Asia, in India, in Vietnam.
Ogni Paese ha culture, condizioni, esigenze diverse. Non esistono Paesi “senza cultura” e la diversità arricchisce se interpretata come stimolo e non come vincolo.
Modulo: E qui emerge il tema dell’armonizzazione del progetto al suo territorio…
Giampiero Peia: Ogni progetto architettonico è una sfida di ricerca e sperimentazione che conduce a soluzioni, forme, esiti diversi. Ad esempio, gli arabi sono portatori di una cultura millenaria e la ripresa matematica, delle geometrie e della calligrafia arabe danno spunti espressivi straordinari. Il punto è quello di uno “incattivirsi” sull’identificazione di uno stile personale ma di adeguarsi agli ambienti e di introiettare le diverse culture.
Modulo: Questa domanda è una provocazione, ma allora come si porta in giro per il mondo “l’italianità del progetto”?
Giampiero Peia: “L’italianità” del progetto non è un’idea specifica, una tipologia, una scala d’intervento o un profilo stilistico: è la combinazione e l’interazione sapiente di capacità complesse che mettono l’architetto italiano nella condizione di lavorare a qualsiasi scala, per qualsiasi destinazione d’uso dell’edificio, dalla struttura, all’involucro, all’interior, in un processo coordinato di interpretazione delle esigenze e restituzione delle soluzioni.
Modulo: Cosa piace di Peia Associati ai tuoi clienti internazionali?
Giampiero Peia: Oltre al tema della capacità di presenza trasversale sul progetto, la conoscenza della lingua e della cultura araba, la conoscenza fluida dell’inglese tecnico (che non è scontata, soprattutto per gli italiani), la presenza di interlocutori identificabili sul posto, la conseguente reperibilità quasi immediata e una grande disponibilità verso il cliente, la negazione dell’architetto deus ex machina e l’affermazione dell’architetto che si pone su un piano di ascolto e dialogo. Non ultimo il portato italiano di materiali, prodotti e tecnologie, il fatto che le aziende italiane siano in grado di customizzare e si intersechino nel processo progettuale, disponibili a creare per noi prototipi ad hoc.
Modulo: In quanti siete e come è organizzato lo studio?
Giampiero Peia: Nella sede di Milano abbiamo la centrale strategica e operativa, e lavoriamo in squadra con le altre squadre minori dislocate sul posto. In studio ci sono molti architetti stranieri, direi nella percentuale di 50% italiani e 50% provenienti da Paesi diversi. La componente internazionale dello studio ci consente di stabilire un rapporto “regionale” con i Paesi stranieri con i quali lavoriamo.
Modulo: Gli investimenti necessari per intraprendere esperienze all’estero sono, in qualche misura, confortati da una condivisione o collaborazione da parte degli Istituti di Credito o da un sostegno (anche solo come promozione) da parte delle istituzioni governative?
Giampiero Peia: Questo è davvero un argomento “triste”, non solo perché i sostegni sono scarsi se non nulli, le ambasciate latitanti (non trasmettono informazioni utili agli studi e non supportano nemmeno culturalmente) anche come presenza agli eventi ufficiali o in occasione delle gare internazionali ad esempio, ma a questo si aggiunge la totale impreparazione degli Istituti di Credito. Quando poi non ci si trovi di fronte a funzionari che neppure conoscono la lingua inglese e si addentrano con disinvoltura in temi dell’internazionalizzazione…e vogliamo parlare delle fine microfiere nelle hall degli alberghi? Mi fermo qui.
Modulo: Chiudiamo parlando del tuo rapporto con la tecnologia.
Giampiero Peia: I nostri architetti usano tutti Revit e BIM. Non è solo un tema di risparmio di tempo ma anche di restituzione di qualità formale e di prestazione dell’architettura. Se l’architetto non si occupa solo di forma, ma anche di strategia del progetto, BIM è un passaggio ineludibile. Non è una scelta, ma un obbligo di serietà professionale per poter svolgere il ruolo fondamentale di coordinatore. Tra l’altro, la conoscenza della lingua inglese e l’uso dei software sono un binomio indispensabile per lavorare in ambito internazionale. I software sono molto più che semplici strumenti: rendono possibili il controllo e la verifica dimensionale e materica.
Lo schizzo, il rough che evoca la figura dell’architetto creatore, può essere ancora un primo momento di comunicazione visiva per trasferire un concetto generale, ma non dà un’immediata restituzione dei parametri di applicazione, né una visione il più possibile vicina al risultato reale e tridimensionale. Non è solo uno strumento di rappresentazione ma anche di pensiero. I software parametrici sono uno strumento creativo e di visione tridimensionale che permette di uscire paradossalmente dai formalismi. La precisione, essenziale del progetto contemporaneo, viene soddisfatta dall’uso del software.
La competitività è legata alla capacità di performare, ottimizzando la produzione di studio, riducendo i tempi, lavorando con i software alla loro massima potenzialità, i rendering da esibire in gara devono essere uno specchio del progetto, una verifica, non un atto pittorico. Esemplifico attingendo ad altri ambiti: non si può essere buoni registi se non si è passati per la direzione della fotografia e non si conoscono le ottiche. Non si può essere musicisti virtuosi e compositori se non si conosce intimamente uno strumento. Come è possibile essere buoni architetti di edifici sempre più grandi e complessi se non si conoscono e non si usano i software?
Pubblicato su Modulo 398