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19 dicembre 2016

Globale/locale: il pensiero di Carlo Ratti

Coesistono, oggi, diversi linguaggi formali insieme nello stesso luogo e in molti luoghi diversi. “Ripartire dalla convergenza tra mondo fisico e digitale potrebbe aiutare a uscire da questa impasse”.
Modulo: Se volessimo individuare un Uomo Globale per antonomasia potremmo dargli il tuo nome. Ti riconosci in questo profilo? 
Carlo Ratti: Più che un uomo globale mi piacerebbe identificarmi con l’Homo Ludens teorizzato da Constant, colui che vive giocando e creando…Teorie situazioniste a parte, mi è sempre piaciuta una scena di Jules et Jim, il film di Truffaut, nel quale al protagonista viene suggerito di abbandonare il sogno di conquistare una posizione, poiché non è ricco, né può vantare relazioni importanti, per diventare curieux, perché L’avenir est aux curieux de profession, la professione del futuro è essere curiosi, aver fame di conoscenza. Ecco, se proprio dovessi scegliere una definizione mi piacerebbe essere un “curieux de profession”. 

Modulo: I tuoi progetti parlano di futuro senza segnatamente stabilirsi in una collocazione geografica specifica: le esperienze a Copenaghen e Parigi, al recente Expo milanese, potrebbero essere dunque “everywhere”. 
Carlo Ratti: I progetti sono in molti ambienti ma ogni ambiente è unico e necessita di una lettura ad hoc. Parafrasando Carlo Mollino si potrebbe dire che per essere globali è necessario essere autenticamente locali… Modulo: Se il processo legato all’uso della tecnologia diffusa è già in corso per gli aspetti operativi (engineering, cantiere, gestione logistica, ecc.) in che misura può modificare il pensiero e le finalità progettuali? Carlo Ratti: La tecnologia diffusa sta radicalmente trasformando la pratica dell’architettura. Viviamo un ambiente ibrido, in cui non ci sono barriere tra digitale e fisico; è quello che cerchiamo di esplorare nei nostri progetti. 

Modulo: Quali sono le relazioni di dialogo e la sovrapposizione (se esiste) tra le dinamiche della globalizzazione e quelle dell’internazionalizzazione? 
Carlo Ratti: È una domanda molto importante. La stessa che si poneva il filosofo Paul Ricoeur quando nel 1961 scriveva: “Everywhere throughout the world, one finds the same bad movie, the same slat machines, the same plastic or aluminium atrocities, the same twisting of language by propaganda”. Tuttavia, all’epoca non avevamo ancora sperimentato la potenza delle reti – che ci permettono di far coesistere locale e globale. A differenza dei mass media del Novecento le reti trasferiscono informazioni sia dall’alto che dal basso. Per questo credo che oggi ci possa essere una nuova risposta a questo problema. Invece dell’idea di “regionalismo critico” degli anni Novanta, qualcosa che potremmo chiamare “Network Specifism”, a questo proposito cito un articolo (The power of Networks) del quale sono stato coautore insieme ad Antoine Picon, Alex Haw e Matthew Claudel, pubblicato su Architectural Review. Globalizzazione non è universalizzazione…ma cosa significa questo per l’architettura e l’urbanistica? Le nostre città appariranno tutte uguali? Si sta prefigurando un percorso di architetture che alterna familiari e amichevoli edifici della Hadid e di Koolhaas? Una famosa risposta a questa domanda è stata data nell’emergente dibattito post-modernista dal Regionalismo Critico che proponeva come strategia di fondo di mediare l’impatto della globalizzazione con elementi che derivino dalle caratteristiche di un luogo particolare, conservando un alto livello di autocritica e consapevolezza. L’ispirazione può essere cercata in ambiti diversi, come la qualità e l’intensità della luce o la tettonica che deriva da particolari modalità strutturali o la morfologia di un dato luogo. In un certo senso il Regionalismo Critico è stato vittima del suo successo: i suoi esponenti principali, diventati protagonisti globali, hanno cominciato a costruire “edifici internazionali”. I dettagli di un luogo non possono diventare il codice di un architetto, se vuole costruire in posti diversi. E se la risposta del Regionalismo Critico è ormai sorpassata, la questione alla base resta più attuale che mai. Se la teoria di Frampton prendeva le mosse dalle peculiarities of a particular place possiamo noi proporre una teoria che si incentra sulle “peculiarities of a particolar network”? con le tecnologie e gli strumenti disponibili potrebbe emergere un forte Network Specifism. La capacità di una rete di collegare le persone a diverse scale sembra fornire un nuovo modo di mediare tra globale e locale. Anche entro i confini della pratica architettonica stanno emergendo differenti forme di interconnessione. Network Specifism può offrire risultati molto diversi a seconda del luogo in cui viene applicato. L’aggregazione degli stimoli e dei suggerimenti individuali in una città di media dimensione può influenzare il progetto globale, per esempio un nuovo edificio per le Olimpiadi o per un’Esposizione Universale potrebbe prendere spunto da un altrettanto globale domanda gestita in rete, mediando tra “il Genius Loci e il global zeitgeist”. In questo senso, il Network Specifism può essere visto come una ridefinizione del Regionalismo Critico. The local becomes relational, il locale diventa relazionale. 

Modulo: Il mondo della progettazione italiana è realmente consapevole delle implicazioni delle smart technologies sugli ambienti costruiti? 
Carlo Ratti: Credo che sia consapevole dell’esistenza di questo trend e delle tecnologie che lo rendono tale. Tuttavia, in Italia e in Europa, spesso si pensa che questi processi debbano nascere dall’alto e così si aspettano i finanziamenti del ministero. È importante invece mettersi in gioco in modo diretto. Credo che la conoscenza e l’uso delle smart technologies sia un aspetto determinante e, nel nostro caso, quasi imprescindibile della competizione delle società di progettazione nei mercati internazionali. 

Modulo: Quanto il linguaggio formale dell’architettura contemporanea è in grado di interagire con una visione futura orientata alla smart city? 
Carlo Ratti: Siamo in un momento di crisi, in cui coesistono molti lingueggi formali. Ripartire dalla convergenza tra mondo fisico e digitale potrebbe aiutarci a uscire da questa impasse. 

Modulo: Anticipare e prefigurare gli sviluppi futuri include un alto rischio di errore. Non pensi che, a causa del ritardo insito nella visione complessiva, il progetto e la costruzione non riusciranno ad accogliere concretamente (se non per piccole rappresentazioni) questa tensione e diventeranno altro, svilupperanno in una direzione diversa da quella prefigurata? 
Carlo Ratti: Certo! Profezie e fantascienza mi hanno sempre lasciato indifferente. Cercare di prevedere il futuro è un esercizio spesso futile, che distoglie dall’oggi senza aiutarci realmente a capire meglio il domani. Pensiamo a quante profezie del passato sono rimaste lettera morta. Oggi non possiamo che sorridere pensando alle macchine volanti e ai marciapiedi semoventi immaginati da Thomas Anderson a inizio Novecento in una sua futuristica descrizione della vita metropolitana alla fine del ventesimo secolo. Le previsioni mancate sul futuro sono così numerose e pittoresche che in alcuni casi costituiscono un vero e proprio luogo narrativo: il paleo futuro. A noi, tuttavia, interessa qualcosa di diverso. Diceva Herbert Simon che “la scienza si occupa del mondo com’è, mentre il design esplora come potrebbe essere”. In questa definizione del design – inteso nell’eccezione anglosassone di progetto – si intuisce un possibile, diverso rapporto col futuro. Non l’intuibile rincorda della previsione, bensì un’occasione di sperimentazione per accelerare la trasformazione del presente. Qualcosa di simile all’idea di “anticipatory design” – o progettazione preventiva – tesorizzata nel ventesimo secolo dal grande inventore americano Buckminster Fuller e basata sull’”affrontare problemi esistenti attraverso l’introduzione nell’ambiente di nuovi manufatti”. Se è vero, come diceva Alan Kay, che “il miglior modo per predire il futuro è inventarlo”, è fondamentale che architetti e designer partano da una sperimentazione condivisa per costruire un futuro di cui tutti possiamo essere artefici. 

Modulo: Oggi, negli anni Venti del 2000, una società di progettazione, uno studio di architettura italiano è più competitivo sui mercati internazionali se è fortemente organizzato e ha significative relazioni con imprese e committenti autorevoli oppure se propone una capacità concreta di progettare fuori dagli schemi noti? 
Carlo Ratti: Direi il secondo punto: penso che l’innovazione sia oggi uno degli aspetti più importanti. Per questo è fondamentale avvalersi di un team e di collaboratori provenienti da ambiti e discipline diverse. Il ruolo dell’architetto è molto cambiato. Come abbiamo scritto nel libro Architettura OpenSource (Einaudi, 2014), pensiamo che la vecchia figura dell’architetto-prometeico, genio solitario ed eroico, debba essere sostituita in virtù di quello che abbiamo chiamato “architetto corale”: direttore d’orchestra capace di armonizzare voci diverse.  

Modulo: Pensi che si possa riconoscere una circolarità temporale del pensiero “dal cucchiaio alla città”? Ha accompagnato la progettazione per più di mezzo secolo, con qualche segnale di senescenza legato alla specializzazione spinta dei diversi ambiti del progetto. Oggi può riaffermare il suo valore, complici smart tech e globalizzazione? 
Carlo Ratti: Credo che sia sempre d’attualità. Anche se dovremmo forse dire “dal microchip all’universo” – con buona pace di Ernesto N. Rogers. 


Pubblicato su Modulo 398
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