Understatement professione e opere lontane dall’esibizionismo, per stile o necessità, perché il progetto “bizzarro”, quando debba anche funzionare…costa un sacco di soldi.
Modulo: Cosa significa per un architetto crescere e lavorare con un grande come Renzo Piano? La tua storia professionale inizia con Renzo Piano…. Maurizio Varratta: È un’esperienza che determina il tuo essere Architetto. Resti legato a modalità di sperimentazione, sviluppo e organizzazione del Progetto che difficilmente riuscirai ad abbandonare nella tua vita professionale. Nel mio caso specifico “l’eredità” forse più importante, mutuata dall’esperienza nello studio di Piano è il controllo dell’“insieme” che impone di conoscere e controllare lo sviluppo, la geometria ed i dettagli del progetto in ogni fase, sia quelle “nobili” del concept, sia quelle esecutive, sia quelle operative, del cantiere. Nello studio di Renzo Piano il controllo di tutto ciò è sempre stato totale, fino alla cantierizzazione. Non è mai successo che dopo la fase preliminare concettuale, le fasi successive venissero delegate a chicchessia, impresa o produttore. Anche nei rari casi in cui lo Studio si è affiancato ad una società di engineering ha sempre mantenuto il controllo totale, in tutte le fasi del processo progettuale realizzativo. Un altro aspetto interessante, non solo in termini professionali ma anche umani e personali, è il contatto con quella comunità di progettisti, “iniziati” da Piano che hanno poi proseguito l’attività in modo autonomo, in tutto il mondo conservando in qualche modo, magari metabolizzato differentemente il comune imprinting iniziale. Assumersi la responsabilità di sviluppare ogni singolo dettaglio è un modo di lavorare oneroso. In un momento economico impegnativo sotto il profilo degli investimenti, una committenza esigente, ma poco incline a “spendere”, Con grande difficoltà, e non immediatamente riesce a comprendere il valore di una progettazione seria, lontana da quello che definisco lo stile da “fumetto d’architettura”.
Modulo: Fumetto d’architettura? Cosa intendi con questa espressione?
Maurizio Varratta: Quando si immagina o peggio ancora si progetta un nuovo edificio solo attraverso immagini renderizzate evocative di un edificio “presunto” senza avere la minima idea della fattibilità. Questo approccio è’ una “tendenza” molto diffusa oggi, ed è anche il tallone di Achille di molti concorsi in cui prevale la fase “formale” e dove gli aspetti realizzativi vengono dalla commissione giudicante tenuti in minor conto e relegati ad una fase successiva. Quando poi si passa alla realizzazione del progetto giudicato vincitore,” tutti i nodi vengono al pettine”, non appena si cominciano ad analizzare gli aspetti economici realizzativi del nuovo edificio e quest’ultimo non risulta congruo si comincia con le varianti ed allora il progetto viene completamente snaturato ed alcuni risultati sono sotto gli occhi di tutti, edifici in degrado dopo pochi anni o peggio completamente difformi dal progetto iniziale vincitore del concorso.
Modulo: L’understatement professionale è una delle caratteristiche che ti contraddistingue…
Maurizio Varratta: In realtà non si tratta di una scelta pre-codificata, non è uno stile vero e proprio: è piuttosto una modalità di proporre l’oggetto architettonico. Preferisco “fare” che “raccontare”. Il pensiero si metabolizza a monte in associazione e condivisione con i collaboratori, il team di progettazione, la committenza. L’edificio, l’Architettura che risulta da questo processo, dialoga con il contesto, l’utenza e chi desideri porsi in una posizione di interlocuzione visiva ed emotiva.
Modulo: Modulo ha pubblicato qualche anno fa l’edificio per la ricerca de’ I Guzzini. Si è trattato di un’esperienza importante. Quali sono state le premesse per questo progetto con la significativa presenza dell’edificio direzionale già esistente firmato da Mario Cucinella?
Maurizio Varratta: Il Polo della Luce a Recanati è nato con la premessa di non dover competere con la palazzina della Direzione Generale. L’edificio destinato ad ospitare la Ricerca doveva essere insieme low profile e contenitore altamente tecnologico destinato ad accogliere e accorpare gli uffici finalizzati alla ricerca, alla progettazione, alla sperimentazione e alla presentazione dei nuovi prodotti. Questo edificio doveva concretizzare la sintesi del pensiero dell’azienda di Recanati legata all’innovazione, ma molto attenta alla sostenibilità ambientale e, allo stesso tempo, doveva porsi quale espressione di un attento approccio metodologico - il medesimo che caratterizza l’attività di ricerca dei nuovi prodotti. Una costruzione che si inserisse nel tessuto industriale esistente senza protagonismi – low profile come ho detto -, che permettesse lo svolgimento delle funzioni attese e, nel contempo, permettesse, esso stesso, di fare ricerca in termini di rapporto tra luce naturale e luce artificiale; che tenesse conto del comfort e del benessere degli impiegati, ma che non sprecasse energia; che fosse energeticamente efficiente, ma nel contempo più “trasparente” possibile; avanzato, senza divenire High Tech; che rappresentasse infine l’inizio di una nuova era più attenta ai consumi ed all’impatto ambientale. Le esigenze architettoniche e di comfort visivo hanno portato alla scelta di un edificio trasparente dove tutte le postazioni di lavoro beneficiano dell’apporto della luce naturale con grande comfort per i fruitori, incrementando il benessere e la sostenibilità dell’edificio. L’impiego di ampie vetrate dotate di cristalli extra chiari ha evidenziato la necessità di controllare l’irraggiamento al fine di ridurre i consumi energetici per il raffrescamento estivo e, allo stesso tempo, di evitare l’abbagliamento degli occupanti. Inoltre, al fine di ottimizzare i consumi energetici e sfruttare gli apporti solari anche nel periodo invernale si è optato per una doppia schermatura. La prima realizzata all’interno della doppia pelle con tende motorizzate controllate da un sistema sofisticato gestito da un sistema centrale ed indipendente dalla volontà del singolo, la seconda, invece, realizzata sulla vetrata rivolta verso il lato interno dell’edificio, con tende motorizzate gestite dai singoli occupati e con funzione di controllo dell’abbagliamento. L’involucro, quindi, è caratterizzato da superfici cieche realizzate con il principio delle facciate ventilate e da superfici completamente trasparenti del tipo a “doppia pelle” che si adattano alle differenti condizioni di temperatura ed irraggiamento esterni per minimizzare i consumi energetici in ogni condizione e stagione. L’edificio ha ottenuto la certificazione Itaca. In particolare, il complesso I Guzzini Lab presenta consumi energetici talmente contenuti da raggiungere il massimo del punteggio (pari a 5) nei criteri di valutazione legati ai consumi energetici. In particolare il sistema prende in considerazione una serie di parametri quali: l’utilizzo di sistemi passivi per il controllo della temperatura e della luce naturale; l’utilizzo di fonti rinnovabili di energia; l’efficienza energetica degli impianti, sia per climatizzazione che per illuminazione artificiale; il livello di comfort degli occupanti, sia da un punto di vista termico e di qualità dell’aria che visivo; l’utilizzo di materiali eco-compatibili, a basso contenuto energetico o riciclabili.
Modulo: In generale le tue opere esprimono una forte propensione al rigore che si esprime senza “esibizionismi” di tipo tecnologico.
Maurizio Varratta: Sì, ma anche questa non è una “filosofia” di vita. In parte, riallacciandomi a quanto detto prima, preferisco fare oggetti “costruibili” sotto il mio controllo. È importante la fattibilità tecnica di ogni oggetto architettonico che è anche (e non bisogna dimenticarlo) indissolubilmente edilizio. In parte perché il progetto “bizzarro”, quando debba anche funzionare, costa un sacco di soldi. In sintesi “lo strano che funziona costa tanto” e non tutti se lo possono permettere, lo “strano” di cui non si sia verificata fattibilità e buon funzionamento, non ha senso. Racconto ora, a sostegno delle mie affermazioni, questo episodio della mia storia professionale: nel 2008 partecipai ad un concorso di progettazione dei Terminal 1 e 3 nell’ambito del Programma di Espansione dell’Abu Dhabi International Airport. Il committente era la Finmed Design Consultancy. Il progetto non vinse il concorso, ma venni ricontattato in un momento successivo per la realizzazione di un complesso alberghiero (200 camere) e di un edificio per uffici/commerciale, sempre nell’ambito del Programma di Espansione dell’Aeroporto di Abu Dhabi. La raccomandazione della committenza era stata proprio quella di non “eccedere in semplicità”, di pensare a una forma complessa e avveniristica. Mi concentrai sul concetto di “nido”, progettando 2 edifici circolari di legno e materiali naturali avvolti da una calza di vetro che si trasformava in un ponte tra i 2 blocchi. Il budget era imponente e il progetto vinse. Non venne mai realizzato perché il momento della firma coincise con il momento del crollo del mercato immobiliare di Dubai (nel 2009). La richiesta di una dilazione di sei mesi per il pagamento dei debiti da parte del colosso statale Dubai World scatenò il panico con immediate e pesanti ripercussioni nel mondo finanziario e su tutti i progetti in essere in quel momento. Resta comunque fondamentale non dimenticare la fattibilità del progetto e questo vale soprattutto per quelli che hanno delle esigenze di “immagini”: questo prerequisito non può essere soddisfatto a scapito della competenza professionale e della realizzabilità dell’opera.
Modulo: A quali progetti stai lavorando in questo momento?
Maurizio Varratta: Sto lavorando ad un progetto di demolizione e ricostruzione di un gruppo di edifici per uffici che avevo già firmato io parecchi anni addietro. Si tratta del Prysmiam Group Headquarters, nell’area ex Ansaldo di viale Sarca a Milano. Il progetto originale risale a più di 15 anni fa e la richiesta, nella riqualificazione d’opera, era la conservazione della geometria e della volumetria. Ho scelto un’alternanza di pieni e “vuoti”, in cui i vuoti sono serre adibite a luogo d’incontro informale. Ma l’aspetto sicuramente più interessante è l’attuazione di tutti i criteri di progettazione sostenibile: la costruzione sul costruito, la ricostruzione con il recupero dei materiali di demolizioni, uso dell’acciaio e così elencando dalle coperture, all’involucro, agli impianti. Sono impegnato anche nello sviluppo dello space planning, l’edificio ospiterà 700 posti di lavoro. Stiamo seguendo le direttive del protocollo LEED con l’obiettivo di raggiungere la categoria Platinum.
Un altro progetto che mi sta impegnando in questo periodo (quasi già in fase di completamento) è un hotel a Venezia in Piazzale Roma. Si è trattata di una vera sfida, molto stimolante per le condizioni al contorno, il contesto storico e ambientale, la committenza, i vincoli imposti dalla Sovrintendenza. In piazzale Roma esiste dalla fine dell’Ottocento una quinta di edifici fatiscenti, con aree “bucate”, cioè con dei vuoti che si sono creati nel tempo per la demolizione di alcune case. La quinta si colloca più o meno dove è stato collocato il ponte di Calatrava, il 4 ponte di Venezia. L’hotel al quale sto lavorando s’insedia in uno spazio vuoto che da una parte guarda il Canal Grande e dall’altra Piazzale Roma. Il progetto ha previsto un edificio piccolo (20 stanze) composto da 2 volumi che si compenetrano e che inizialmente dovevano essere uno di pietra, l’altro di vetro, collocato in prossimità di un terzo edifico esistente (un hotel da riqualificare) rivestito in cocciopesto. Come prevedibile, non è stata concessa l’autorizzazione per l’uso del vetro, sostituito dalla pietra. Il risultato, in corso d’opera, è un edificio unico composto da una struttura di acciaio e legno, costruito su un basamento con solettone, con il tipico tappo di fondo per la tenuta idraulica. I solai sono in legno con irrigidimento ottenuto con bande chiodate, la struttura è all’avanguardia. I due blocchi che si compenetrano sono rivestiti da due diversi tipi di pietra per evidenziare il disegno compositivo, l’uno in pietra d’Ischia, l’altro in pietra di Trani lavorata. Il fronte che prospetta il Canal Grande ha uno sbalzo in direzione canale di 7 metri (che aggetta però sulle fondamenta non sull’acqua). Non essendoci preesistenze storiche di particolare importanza, il progetto ha potuto esprimere un carattere tecnologico, sia pure rispettoso del contesto e non invasivo. Per quanto riguarda gli aspetti impiantistici, su indicazione della committenza, sono stati individuati oggetti e terminali tradizionali, caldaie a gas e Fan Coil. Si è preferito fare solo la predisposizione per l’impianto ad aria primaria che sarà realizzabile in un secondo tempo.
Modulo: Uno dei tratti distintivi del tuo curriculum professionale è la collaborazione con Autogrill e la realizzazione di aree che segnano il territorio autostradale. Raccontaci come è cominciato tutto…
Maurizio Varratta: Alla fine degli anni Novanta partecipai al concorso nazionale di architettura per la progettazione e realizzazione dell’Autogrill del 2000. Vinsi il concorso e realizzai il modello concorsuale nel Comune di Anagni (FR), l’autogrill “La Macchia Est”. Si trattava di un progetto di rottura rispetto allo standard corrente, una diversa traduzione architettonica di contenuti legati al benessere ambientale. Si è trattato di un assolo non ripetuto anche a causa degli oneri derivanti dalla manutenzione e dai collaudi ripetuti legati alla struttura sospesa che è il tratto caratterizzante dell’edificio.
Successivamente si lavorò su progetti più riproducibili, sia pure conservando una logica compositiva che conciliasse la corporate identity con la diversificazione tipologica. Questo rappresentò l’inizio di una lunga collaborazione intensa, attiva non solo per il realizzato (oltre a questo, gli Autogrill Brianza Nord e Brianza Sud), ma anche per l’attività di ricerca relativa a diversi metaprogetti.
Ho lavorato sul tema degli autogrill in calcestruzzo, anche se poi la grande necessità manutentiva e la versatilità realizzativa ha sempre spinto a scegliere l’acciaio come materiale da costruzione privilegiato. Si è cercato di individuare soluzioni distributive che consentissero il contatto visivo tra l’utente che consuma il pasto e la sua auto parcheggiata, assolutamente non immune dal rischio furti. È in fase di studio una ricerca su un nuovo modo di interpretare i servizi igienici. Non sempre queste ricerche, questi metaprogetti sono stati realizzati, spesso per i costi troppo alti da sostenere o perché non strettamente funzionali al business della società.
Pubblicato su Modulo 387, gennaio/febbraio 2014