L’architetto: «Può diventare il laboratorio europeo del verde urbano intelligente. Ma non basta piantare alberi»
Ma la riqualificazione è stata sostenibile?«Negli ultimi anni sono nati spazi verdi importanti, come la Biblioteca degli Alberi. E a Porta Romana tutto ruoterà intorno a un grande parco capace di rimarginare la ferita dello scalo ferroviario: una connessione verde da nord a sud. Però non basta piantare alberi: serve un sistema. Il verde deve essere funzionale, non solo decorativo. Con il cambiamento climatico deve rinfrescare la città in estate, assorbire le piogge torrenziali, ospitare biodiversità – dai passeri ai microbi del suolo. La buona notizia è che Milano ha un ecosistema di università, start-up e centri di ricerca già attivi su questi temi. Può diventare un laboratorio europeo del verde urbano intelligente».
Senza entrare nel merito delle inchieste in corso, l’impressione è che stia finendo la fase della Milano verticale, quella dei grattacieli per pochi e della città patinata. È d’accordo?«Non è tanto una questione di verticale o orizzontale – anche se, come l’urbanista danese Jan Gehl, credo che soprattutto nelle città europee la crescita orizzontale favorisca una città più sociale e socievole. Il vero tema è il successo: quando una città funziona, attira persone e capitali, i prezzi salgono e l’inclusione diventa esclusione. Ci sono sempre fasi alterne nello sviluppo temporale delle città. E credo che nei prossimi anni vedremo correttivi in questa direzione: più edilizia accessibile, più strumenti per contenere la gentrificazione».
Insegnanti, impiegati e giovani faticano a trovare casa e spazio. Come si risolve questo problema?«È il grande dilemma urbano: attrattività e accessibilità sono forze in tensione. Le città, fin dalle loro origini, sono state dispositivi straordinari per concentrarci insieme. Ma questa concentrazione ha un prezzo: tutto costa di più. Oggi, però, qualcosa sta cambiando. Molte professioni si sono liberate dal vincolo temporale e fisico dell’ufficio. Con il lavoro flessibile, città come Torino possono diventare alternative reali: qualità della vita alta, costi contenuti, e Milano a 40 minuti di treno. Non è decentramento, né cité-dortoir come nel Novecento. Si tratta di una nuova rete urbana, più distribuita».
Lei ha coniato l’espressione “senseable city”, contrapposta alla “smart city”. Cosa significa esattamente? E come può tradursi, in concreto, nelle scelte urbanistiche delle città del futuro?
«Il termine “smart city” non mi ha mai convinto. Evoca una visione top-down, fatta di sensori, algoritmi, automazione. Tutto molto efficiente, ma spesso disumanizzante. La senseable city, un concetto che abbiamo proposto al MIT ormai vent’anni fa, è un’altra cosa: una città che sente, che percepisce e che risponde. Dove l’intelligenza è collettiva, distribuita. E oggi, con la tecnologia che abbiamo – dati in tempo reale, IA, reti – possiamo usare queste risorse per progettare città migliori, più vivibili. Non per sorvegliare, ma per prendersene cura, chiamando a raccolta molte forme di intelligenza. È un tema che stiamo esplorando anche alla Biennale di Venezia di quest’anno, in corso fino a fine novembre: Intelligens. Naturale. Artificiale. Collettiva.»