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Una conversazione con Will Alsop

Modulo: la sua architettura è quella di un Maestro e al tempo stesso di un outsider. Sfugge ogni categoria stilistica e ogni “scuola” di pensiero e di critica: non è assimilabile né all’High-Tech, né al Post-Modern, né al Decostruttivismo.. Come vive questa sua peculiare posizione nello scenario britannico ed internazionale?
Will Alsop: Il pluralismo è una delle grandi conquiste della contemporaneità che ha aperto un dibattito su cui ancora non si sono stabilite delle conclusioni. Anche l’idea di voler incasellare l’architettura secondo regole stilistiche appartiene al passato. Credo che la diversità e la pluralità di approcci sia formali che di metodo sia un arricchimento per le nostre città che non possono crescere sotto un’unica visione totalitaristica o ideologica. In sintesi, non credo che sia indispensabile adottare uno stile o una metodologia prefissata per fare architettura: a 30 anni ricercavo forme di teorizzazione; a 40 anni sono riuscito a liberarmi del bisogno di una teoria; a 50 anni ho formulato alcune ipotesi; a 60 anni ho definito qualche nozione e spero che a 70 anni queste mi portino a realizzare l’assoluta libertà. Penso che la mia architettura si contraddistingua per un messaggio che riguarda più il processo da cui scaturisce che l’effettiva fenomenologia estetica. Il progetto non deve scaturire da codici stabiliti a priori ma da un processo interattivo con il luogo e gli utenti che non potrà mai ripetersi due volte secondo gli stessi meccanismi.
Modulo: Come è organizzato lo studio e come riesce a comunicare le sue visioni ai suoi collaboratori?
Will Alsop: Lo studio è suddiviso in tre settori: studio 1 che si occupa della progettazione esecutiva; studio 2 di grafica e di visualizzazione computerizzata; studio 3 di ricerca, soprattutto attraverso la pittura. Studio 3 è un laboratorio continuo dove dipingiamo quadri fino a 3 o 4 metri. Possiamo sporcare le pareti ed esprimere le nostre idee secondo un processo libero ed aperto. Così comunico le mie emozioni progettuali, lavorando insieme ai miei collaboratori, dipingendo e parlando insieme a loro, condividendo il processo creativo il più possibile. A volte arrotoliamo le tele e le portiamo con noi agli incontri con la committenza. Mi piace la gente e lavorare insieme a loro, ma anche coinvolgere artisti e persone apparentemente esterne al progetto. In questo senso la progettazione non è più un percorso solitario e la comunicazione non è un passaggio gerarchico di informazioni ma piuttosto una continua condivisione e ricerca della soluzione.  
Modulo: Lei realizza edifici che non sembrano edifici: sono costruzioni stravaganti ma, al tempo stesso, funzionali e allusivamente contestuali. Come riesce a risolvere i conflitti di tutti questi aspetti?
Will Alsop: Forse perché le mie costruzioni non sono così complesse come quelle di Zaha Hadid, di Coop Himmelb(l)au o di Fuksas. La scatola primaria è relativamente essenziale e quindi anche funzionale. Non mi interessa la ginnastica strutturale ma molto di più l’esplorazione dello spazio interno e la potenzialità di comunicare attraverso l’integrazione con l’arte.
I miei edifici sono unici per il loro contesto: un contesto che si riferisce alle aspirazioni e alla cultura della committenza. La Pekcham Library è pensata per una comunità afro-caraibica e doveva parlare il loro linguaggio, così come The Public si rivolge alla cultura di una città industriale come Birmingham. L’architettura deve riuscire a offrire una sorta di scappatoia dal quotidiano e rappresentare l’orgoglio civico dei fruitori se un’opera vuole chiamarsi pubblica.
Modulo: Trasformare il dialogo con la committenza in uno strumento progettuale è una delle caratteristiche della sua architettura. Come riesce a gestire leadership e partecipazione?
Will Alsop: Il lavoro dell’architetto è per l’80% performing art, cioè arte della comunicazione. Durante gli incontri con i futuri utenti cerco di capire non solo cosa vogliono dal progetto ma cosa si aspettano dalla qualità dell’architettura, come vorrebbero che gli cambiasse la vita.
Facciamo workshop e realizziamo anche dei film. Dimentichiamo il programma e cominciamo a lavorare sulle aspettative, sulle visioni più che sull’architettura nei suoi aspetti tecnici. Mi piace la gente e se la rendo felice credo di aver fatto bene il mio lavoro!
Modulo: Lei lavora a scale diverse, da quella dell’oggetto di design alla pianificazione di interi quartieri urbani. Come gestisce questo diverso rapporto con il progetto?
Will Alsop: Nella mente la scala sparisce, non pensiamo con la metodologia e gli strumenti dell’architetto ma con la sensibilità dell’artista che annienta le considerazioni di scala: ricerchiamo il senso oltre la realtà. Una ricerca senza scala né confini fisici. Progettiamo in continuazione, anche edifici che non ci verranno mai commissionati ma le cui soluzioni trovano poi vita nell’oggetto come nel disegno di grandi oggetti urbani.

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